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Il delitto Cecchettin e l’agonia della responsabilità: quando la giustizia rinuncia alla crudezza del vero


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Settantacinque coltellate. Settantacinque. Non cinque, non dieci, non venti. Settantacinque. E secondo la Corte d’Assise di Venezia non si è trattato di crudeltà, bensì d’inesperienza. Perché Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, «non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere alla vittima colpi più efficaci». Un assassino, sì, ma maldestro.

A leggere le motivazioni della sentenza che lo condanna all’ergastolo, viene spontaneo chiedersi: cos’altro deve accadere perché un atto venga ritenuto crudele? Serve forse un master in efferatezza? Un gesto più “elegante”? Più “tecnico”? È questo l’approccio che un tribunale italiano decide di adottare davanti all’esplosione cieca e reiterata della violenza?

Ma c’è di più. Ed è, se possibile, ancora più agghiacciante.

Non accettava la sua autonomia: l’arcaica cultura del possesso

I giudici sono invece chiarissimi nell’individuare i motivi abietti dell’omicidio: l’incapacità di accettare l’autonomia della vittima, la rabbia di fronte alla libertà, l’istinto arcaico e viziato del possesso. In altre parole, la donna libera, che decide, che si autodetermina, è percepita da Turetta come una minaccia. Un’inaccettabile deviazione dal copione patriarcale che gli era più familiare.

È il punto più lucido della sentenza. Il momento in cui la toga si toglie il guanto e indica la radice culturale dell’orrore. Eppure, è una lucidità monca, perché non regge alla contraddizione di un’esclusione dell’aggravante della crudeltà.
Si può ammettere la viltà dei motivi e la mostruosità del gesto, ma poi assolvere la modalità della sua esecuzione?

La cultura aziendale e professionale non è immune

A questo punto, il lettore potrebbe chiedersi: cosa c’entra tutto questo con il mondo delle imprese, dei liberi professionisti, delle aziende italiane? C’entra eccome. Perché l’omicidio di Giulia Cecchettin non è un caso isolato, ma il frutto di una mentalità diffusa, spesso strisciante, che permea anche le dinamiche aziendali, i rapporti di potere, la comunicazione d’impresa.

Quante donne, ogni giorno, in contesti professionali, vengono silenziate, sottovalutate, escluse dai tavoli che contano, relegate a ruoli ancillari, o colpite — metaforicamente e talvolta non solo — per aver osato dire “no”?
E quante aziende — anche tra le più “progressiste” — perpetuano un modello in cui la leadership è sinonimo di controllo e non di visione condivisa?

La violenza non è solo quella fisica. È anche la cultura del dominio, del ricatto morale, dell’umiliazione sistematica, del paternalismo travestito da premura.

Quando la giustizia si piega alla razionalizzazione

Il paradosso più inquietante di questa sentenza è proprio nel voler razionalizzare l’irrazionale. Infilare dentro una cornice logica un gesto che è, per sua natura, il collasso di ogni logica. E nel farlo, si finisce — volutamente o meno — per alleggerire il peso del crimine. Come se l’uccisione fosse il risultato di un problema tecnico, e non di una volontà mostruosamente lucida, anche se primitiva.

Non possiamo permetterci che la giustizia diventi una scienza meccanica, dove la quantità di sangue versato conta meno della “competenza” nell’uccidere. Non possiamo tollerare che il diritto si sganci dall’etica, che le parole perdano il loro peso. Perché se settantacinque coltellate non sono crudeltà, allora cos’è la crudeltà?

La responsabilità collettiva: oltre il tribunale

Il caso Turetta-Cecchettin chiama in causa ognuno di noi. Non solo come cittadini, ma come professionisti, imprenditori, manager, educatori. Abbiamo una responsabilità collettiva nell’estirpare la cultura della sopraffazione, nel promuovere una nuova idea di relazione, di rispetto, di leadership. Una cultura in cui l’autonomia non sia mai percepita come una minaccia, ma come la più nobile delle conquiste.

Serve un cambio radicale di paradigma. Non solo leggi più dure, ma contesti lavorativi più giusti. Non solo campagne di sensibilizzazione, ma veri processi di cambiamento. E serve anche una giustizia che chiami le cose col proprio nome, senza sconti, senza tecnicismi disumanizzanti, senza infingimenti.

La sentenza Turetta ci dice che l’Italia ha ancora molta strada da fare. Ma ci offre anche un’occasione. Quella di guardare il mostro negli occhi — senza veli, senza razionalizzazioni — e di costruire, finalmente, una cultura della responsabilità. A partire da ogni ufficio, da ogni azienda, da ogni aula di tribunale.

Perché settantacinque coltellate non sono mai inesperienza. Sono ferocia. Punto.

[ Photo Credit: ilmessaggero.it ]

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