Viviamo nell’era dell’informazione, eppure sembriamo sempre meno informati. L’Oxford English Dictionary ha recentemente eletto brain rot — letteralmente “cervello marcio” — come parola dell’anno, un neologismo che denuncia una realtà inquietante: il degrado delle nostre capacità cognitive, causato dal consumo eccessivo di contenuti scadenti.
Un’espressione che non solo sintetizza un fenomeno dilagante, ma lancia un vero e proprio campanello d’allarme sulla salute mentale e culturale dell’umanità.
Le piattaforme social e i loro algoritmi sembrano progettati per intrappolarci in una spirale di contenuti senza fine. Brevi video virali, meme di dubbia qualità e trend effimeri colonizzano la nostra attenzione, portandoci a scorrere freneticamente senza riflettere. Questo consumo passivo di “junk content” erode lentamente la nostra capacità di concentrazione e di pensiero critico, trasformandoci in spettatori apatici.
La scienza conferma queste preoccupazioni. Studi neuroscientifici mostrano come il sovraccarico di stimoli digitali porti a una riduzione della memoria a breve termine, comprometta la capacità di apprendere nuove informazioni e favorisca la superficialità nell’elaborazione dei dati. In breve, ci rende più distratti e meno capaci di pensare in modo profondo.
Non è solo la quantità, ma la qualità del contenuto a essere sotto accusa. L’algoritmo non premia ciò che è utile o educativo, ma ciò che è virale e immediatamente appagante. Così, ci troviamo sommersi da video di balletti improvvisati, prank senza significato e notizie distorte, sacrificando tempo ed energia che potrebbero essere impiegati per coltivare interessi più significativi.
Questa cultura del consumo rapido non colpisce solo i giovani, spesso considerati più vulnerabili, ma anche gli adulti. Il risultato è una società che privilegia la reazione istantanea rispetto alla riflessione, la quantità rispetto alla qualità.
Il brain rot non è solo un problema individuale; è una crisi collettiva. Il declino della capacità critica si riflette nei dibattiti pubblici, sempre più polarizzati e meno informati. La superficialità diventa la norma, mentre la complessità viene scartata come noiosa o incomprensibile.
Le conseguenze si vedono ovunque: nella diffusione di fake news, nell’incapacità di distinguere opinioni da fatti, nella crescente difficoltà a risolvere problemi complessi. È come se la società, saturata di contenuti inutili, stesse lentamente perdendo la capacità di ragionare su ciò che conta davvero.
La parola dell’anno, brain rot, non è solo un’etichetta. È un monito per una società che rischia di sacrificare il proprio potenziale intellettuale sull’altare dell’immediatezza. È un invito a fermarsi, riflettere e ripensare il modo in cui interagiamo con il digitale.
Perché, se è vero che siamo ciò che consumiamo, è giunto il momento di scegliere meglio. Non è troppo tardi per invertire il declino e costruire un futuro in cui la conoscenza e la riflessione prevalgano sulla superficialità e sull’oblio.
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